Per i magistrati può stare tranquillamente in cella, anche se ha un tumore al seno e anche se aspettava un bambino, poi nato prematuro. Nel pieno delle denunce sull'emergenza carceri - fatte proprie nei giorni scorsi anche dal presidente del Senato Ignazio La Russa - arriva una sentenza della Cassazione che sembra andare nel segno opposto a un accesso più facile alle misure alternative alla detenzione: una donna detenuta a Milano si è vista rifiutare la richiesta di arresti domiciliari con la motivazione che la sua casa non è idonea ad ospitarla, trattandosi di una casa abusiva. Ovvero di una sorta di baracca in un insediamento della periferia milanese.
È una storia di emarginazione e di degrado, quella che si legge nelle carte - rese note ieri dall'Agi - che raccontano la vicenda giudiziaria della donna, attualmente detenuta nell'Icam, l'istituto a custodia attenuata dove vengono destinate le detenute-madri. E come detenuta-madre la donna è una veterana: in questi anni, è rimasta incinta diciannove volte e ha partorito ben quattordici volte, secondo una prassi drammaticamente diffusa in alcune comunità. La donna è stata rinchiusa all'Icam milanese quando una lunga serie di condanne inflitte in questi anni sono diventate definitive: la sentenza della Cassazione parla di un cumulo "relativo alla pena detentiva di anni trenta di reclusione e mesi sette di arresto, irrogata anche per numerosissimi reati di furto anche in abitazione". Trent'anni: un totale superiore a quello di molte condanne per omicidio, e che si spiega solo col mancato riconoscimento della "continuazione" tra i reati commessi.
Il primo rifiuto alla richiesta della donna era arrivato dal tribunale di Sorveglianza di Milano, la Cassazione lo conferma. Tra i motivi per rifiutarle i domiciliari, la sentenza della Suprema Corte cita al primo posto le condizioni abitative, sottolineando che la donna dovrebbe scontare i domicilari "un immobile di costruzione abusiva, già oggetto di ordine di demolizione" (ordine, in realtà, poi annullato); il secondo è "l'accertata estrema pericolosità della condannata" che fa pensare alla possibile reiterazione del reato "considerato il numero ininterrotto di reati commessi anche in gravidanza e pur essendo madre di altri figli minori, dunque commessi in spregio alla tutela necessaria da assicurare ai nascituri e ai figli nati". Quanto alla malattia, i giudici obbiettano che "le cure chemioterapiche necessarie possono essere gestite per tre mesi", portandola in ospedale "per il tempo necessario alla somministrazione della terapia", e "l'eventuale assistenza successiva può essere garantita adeguatamente dalla struttura sanitaria interna".
